Kim Ki-Duk è un regista coreano il cui cinema ha sempre spaziato dalla poesia più spinta, come ne caso di Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (Bom yeoreum gaeul gyeoul geurigo bom, 2003), ai racconti dai tratti apertamente politici e realisti come The Coast Guard (Hae-anseon, 2002). Questo per dire che i suoi interessi spaziano dall’astrazione al realismo non scansando momenti, è il caso de L'isola (Seom, 2000), in cui questo cineasta si lascia andare a sequenze fortemente disturbanti, almeno per una parte del pubblico.
Il prigioniero coreano (Geumul, 2016) appartiene alle scelte più decisamente politiche di quest’autore e racconta la storia, venata di disperazione e sconforto, di un poveraccio triturato dai servizi di sicurezza di entrambe le Coree. Un pescatore del Nord, che abita nei pressi di un tratto di mare che segna il confine con il Sud, va alla deriva, sconfinando, quando il motore della sua barca è rovinato dalla rete che si avvolge attorno all’elica del fuoribordo. Le guardie di frontiera di Seoul lo consegnano ai servizi segreti. Un funzionario particolarmente fanatico lo etichetta subito come una spia e lo costringe a subire stringenti interrogatori che sconfinano in vere e proprie torture. Quando i superiori si rendono conto che si tratta solo di un povero Cristo, decidono di rimandarlo al Nord. Qui è accolto da diffidenze e maltrattamenti analoghi, inflittigli fingendo di accoglierlo come una sorta di eroe che ha rifiutato le lusinghe del Sud. Picchiato, privato del poco denaro che gli avevano dato oltrefrontiera, dollari rubatigli da inquirenti corrotti, non può far altro che riprendere il duro lavoro sul mare. Tuttavia, neanche questo gli è consentito in quanto le autorità del Nord lo considerano inaffidabile. Non gli resta che risalire in barca sfinando i fucili dei doganieri e morire a pochi passi dalla frontiera. Il regista traccia un quadro di quella che è una partizione fra le più calde del mondo (la guerra di Corea fu combattuta fra il 1959 e il 1953 fra Cinesi e Americani, ma ancora oggi non è stato steso un vero trattato di pace) e lo fa con una disperazione che non annette repliche. Peccato che il film soffra di una grossolanità programmatica (buoni e cattivi non mancano in entrambe le nazioni) che riduce lo spessore della proposta e la fa scivolare pericolosamente sul versante dell’ideologia e della propaganda.