Stati Uniti all’inizio degli anni sessanta. In un centro studi segreto i militari stanno esaminando un essere misterioso, un anfibio umanoide recuperato nel mare davanti all’America Centrale che potrebbe anche essere utilizzato nella guerra fredda contro i russi inviandolo nello spazio e annullando così, lo svantaggio con i sovietici.
Questi ultimi vogliono uccidere il mostro per privare gli avversari di un possibile vantaggio. In mezzo a questo feroce gioco di agenti segreti e spie c’è una ragazza muta che si guadagna da vivere come donna delle pulizie, ha un’amica di colore, che fa lo stello lavoro, e un vicino omosessuale e alcolizzato, un pittore emarginato costretto, per sbarcare il lunario, a disegnare per la pubblicità e a dipingere insegne. L’essere prigioniero dei militari, che non esitano a colpirlo con bastoni elettrici, solitamente usati con il bestiame, è tutt’altro che una creatura insensibile e priva d’intelligenza. La donna s’innamora di lui ed è l’unica a trattarlo con umanità e cercare una possibile via di comunicazione. Arriverà sino a rapirlo, nasconderlo in casa e, una volta scoperta da un agente brutale, a sfuggire con lui in mare. Il messicano Guillermo del Toro (1964) utilizza ne La forma dell’acqua - vincitore del Leone d’Oro a Venezia 2017 e di vari premi Oscar - le sue predilezioni per il cinema di serie B, per mostri e insetti. In questo caso il matrimonio è anche fra politica, fantastico e storia d’amore, questo nel senso che la storia salda il clima dell’America di quegli anni (a questo proposito si deve ricordare la sequenza della coppia di colore cacciata dal ristorante) a una storia d’amore tenerissima e una perorazione in favore dei diversi. Tali sono, infatti, il mostro, la ragazza muta, il vicino omosessuale, figure emarginate e vilipese costrette a fare i conti con una società bigotta e violenta.