C’è stato un tempo in cui il Libano era chiamato la Svizzera del Medio Oriente per la vita tranquilla e pacifica che vi si svolgeva e per i molti affari finanziari che ospitava. Anni lontani spazzati via dalle guerre fra israeliani e paesi arabi, dall’arrivo massiccio dei profughi palestinesi e dagli scontri fra le fazioni cristiane di destra e i militanti dell’OLP.
L’insulto, del regista libanese Ziad Doueiri, arrestato non appena messo piede in patria provenendo dalla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia ove Kamel El Basha, interprete del suo film, era stato premiato con la Coppa Volpi per l’interpretazione maschile. L’accusa che gli rivolgevano le autorità era di collaborazionismo con il nemico israeliano. Dopo un’ora e mazza è stato rilasciato, ma gli sono stati sequestrati i due passaporti di cui era legittimamente in possesso. Il film muove da un incidente banale: un libanese bagna con l’acqua data ai fiori un capomastro palestinese che sosta sotto il suo terrazzo. Ne nasce una lite che viene ingrossandosi, anche mediaticamente, sino a finire in corte d’assise. È un percorso che fa emergere gli odi che ancor oggi separano nativi e immigrati. In questo il film assume un’eco e un valore morale non limitato al solo paese dei cedri. Come dire che è un’incursione, lucida e sofferta, nelle intolleranze che segnano molte società moderne condizionandone la vita e il cammino. Il regista, lungi dal prendere posizione per questa o quella parte, denuncia la mancanza di memoria del presente e ricorda allo spettatore l’esigenza di guardare all’oggi tenendo presente ciò che successo ieri, dalla propria parte o da quella opposta. È un film di grande forza orchestrato con sapienza attorno al processo con cui si chiude una storia che sancisce una decisione legalmente valida, ma non assolve dalle proprie responsabilità nessuna delle parti in causa.
