L’austriaco Michael Haneke è uno dei cineasti di punta del cinema contemporaneo. Happy End (Lieto fine) traccia il quadro di una famiglia borghese europea ricca e potente, ma dilaniata all’interno da contraddizioni laceranti.
Il più anziano (uno straordinario Jean-Louis Trintignant) è malato, costretto su una carrozzella e non trova nessuno disposto a facilitare la sua morte fornendogli un’arma o del veleno. Quando riuscirà a gettarsi in mare con l’aiuto di una nipotina che ha il vizio di filmare con il telefonino tutto ciò che la circonda compresa la toeletta di sua madre prima del suicidio, saranno i parenti a salvarlo. La figlia è una manager in carriera insensibile a tutto tranne che alle regole del profitto, di queste fa parte anche il fidanzamento con un faccendiere inglese di aspetto tutt’altro che apollineo. Un nipote, l’unico che si ribelli all’andazzo familiare, è presto messo da parte con la giustificazione che è matto. Un altro rampollo intrattiene messaggi sporcaccioni con un’amante misteriosa. Il dramma inizia con il crollo di una muraglia di sostegno nella cui costruzione è impegnata l’azienda di famiglia, disgrazia che costa la vita a un paio d’operai le cui famiglie sono subito tacitate con una congrua mazzetta. È un panorama sconfortante e tragico che gronda insensibilità e orrore morale. Il regista, di cui ricordiamo alcuni splendidi antecedenti che vanno dal lontano Der Siebente Kontinent (Il settimo continente, 1988) a Funny Games (Giochi divertenti, 1997) sino allo straordinario Das Weisse Band (Il nastro bianco, 2009), mette da parte ogni violenza suggerita in modo esplicito, anche se mai mostrata, lo fa in favore di un clima di corruzione complessiva in cui non è neppure più possibile suicidarsi. È un film di grande spessore, girato in maniera magistrale e ricco di significati di secondo livello al cui centro c’è un giudizio impietoso sulla borghesia.