Il libro Il cacciatore di Androidi, intitolato anche Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (Do Androids Dream of Electric Sheep? 1968), dello scrittore americano Philip Kindred Dick (1928 – 1982) era alla base del primo film diretto Ridley Scott nel 1982 e intitolato Blade Runner.
Dopo anni d’incertezze e di tentativi falliti arriva ora Blade Runner 2049 firmato dal canadese Denis Villeneuve che non è facile definire un seguito del primo film o un prodotto autonomo. Dell’originale conserva l’atmosfera incubica che segna la Los Angeles prossima ventura (nel romanzo era, forse, una visione postatomica della capitale californiana) con il cielo permanentemente coperto da nubi minacciose, interi quartieri ridotti a cumuli di macerie e percorsi da bande feroci di diseredati. Rimane anche l’asse centrale del racconto – un poliziotto in caccia di androidi sfuggiti al controllo umano – ma manca il pathos legato al tema centrale del primo film: il rifiuto della morte, meglio della terminazione, per questi manufatti che hanno gradualmente acquisito coscienza di sé. Questa mutilazione priva il film di un punto d’appoggio essenziale e riduce la dimensione filosofica al punto da incardinare l’intera operazione sui dati tecnologici. Ai tempi del primo film non era possibile portare sullo schermo certe meraviglie possibili oggi, particolarmente a livello tridimensionale per cui, da questo punto di vista la distanza fra le due produzioni è immensa. Uno spazio non compensato dalla componente morale del film che si segnala più come esempio di sorpresa per gli occhi che non per dimensione del pensiero. Vale a dire ciò che ci è proposto è più una sorpresa della produzione che un pensiero originale.