Una famiglia di Sebastiano Riso (regia e sceneggiatura) mette apparentemente al centro del discorso il traffico di bambini destinati a famiglie (omo ed etero sessuali) che tentano di evitare i lunghissimi tempi imposti dalla burocrazia o resi impossibili dalla legge.
Una coppia malamente assortita, Maria e Vincenzo, campano alla meno peggio vendendo a famiglie sterili o formate da omosessuali, i piccoli che la donna sforna a ripetizione. L’uomo esercita sulla compagna un vero e proprio dominio psicologico e non si comprende bene perché la donna accetti ogni sorta di angheria impostile dal compagno. Lei è l’unica fonte di reddito della famiglia per cui, quando decide di averne abbastanza e vuole tenersi l’ultimo bimbo che porta in seno, tutto l’equilibrio della copia salta in aria. La storia è tratta da una collage di fatti di cronaca non meglio specificati e sembra raccontare una condizione di quasi povertà che tenta di uscire dalle difficolta commerciando i bimbi che riesce a procreare. Sembra, in quanto nulla è specificato in modo diretto. In questo sta l’ambiguità e la debolezza di un film e di personaggi che paiono esistere solo per la perizia degli interpreti, fra cui spicca una Micaela Ramazzotti qui alla prova migliore della sua carriera, un exploit che le ha valso il premio per la migliore interpretazione femminile all’ultima mostra del cinema di Venezia. Una prova che riesce a dare corpo ad una figura che pare costruita sul vuoto motivazionale sia psicologico sia sociale. In altre parole un film monco che galleggia nell’indeterminato vivendo della luce di personaggi che non hanno radici, né individuali né sociali. Come abbiamo scritto la regia sostiene di aver costruito la storia partendo da una serie di fatti di cronaca, ma non tenta neppure minimamente di ancorare i fatti ad una qualsiasi realtà. Rimangono due buone prestazioni attoriali, ma del tutto avulse da una qualsiasi motivazione.