Il film del debutto dell’americano Asaph Polonski, che da anni vive in Israele, è una commedia tra il drammatico e l’allegro basata sulle reazioni di due genitori ebrei in seguito della morte del figlio dopo un lungo ricovero in Ospedale. Presentato alla Settimana della Critica del Festival di Cannes dello scorso anno con un discreto successo di critica e pubblico, ha fatto la classica vita di questi film, belli ma difficili da far rendere al box office.
Molte presentazione in festival anche importanti, tanti applausi, buone critiche e la presentazione in sala in solo quattro o cinque paesi. Attori poco noti – bravissimi, davvero – a cui va aggiunto un regista e sceneggiatore debuttante e una storia che, sulla carta, potrebbe sembrare difficile da metabolizzare. Invece, il cineasta è riuscito a trovare una sua giusta cifra stilistica che gli ha permesso di equilibrare i livelli narrativi facendo sorridere e pensare allo stesso tempo. Nella costruzione narrativa vi sono alcuni passaggi non felici, ma è giustificabile in un’opera prima in cui, oltretutto, si mette davvero tanta carme al fuoco. Raccontare l’intimità di chi deve superare un lutto così importante sarebbe difficile per chiunque, oltretutto se, come in questo caso, il padre affronta questa prova in maniera non convenzionale. Soffre per la morte del figlio, malato terminale, e quando va in Ospedale per raccogliere i suoi effetti personali incappa in una confezione di marijuana ad uso medico e se ne impossessa. Da qui il desiderio di provare per la prima volta nella sua vita lo stupefacente e, assolutamente incapace di preparare la canna, si fa aiutare dal figlio un po’ strambo dei vicini che per vivere consegna sushi a domicilio. La bravura del regista sta nel partire da una base che parrebbe perfetta per un film demenziale, per portare ogni cosa verso un viaggio all’interno dell’animo, al desiderio di un uomo di conoscere il mondo del figlio da cui lui era sempre stato escluso o che, forse, non era mai riuscito a considerare importante. Pochi personaggi ma tutti bene calibrati, dolore ma non melodramma, moderata pazzia mai raccontata in maniera grottesca. Il bravo Shai Avivi, attore televisivo noto solo in patria, vive in maniera perfetta il padre distrutto dal dolore che reagisce in maniera formalmente irrazionale; è credibile, molto umano e spesso divertente. Forse il migliore in questa produzione low cost è Tomer Kapon, qui al suo primo personaggio cinematografico importante, che dà allo strambo Zooler credibilità assoluta, simpatia, empatia, un eterno bamboccione che risulta essere il cardine indispensabile alla la ripresa del padre addolorato. Eyal e Vicky, una normale coppia con una vita borghese di buon livello, devono affrontare la prematura morte del figlio avvenuta dopo lunga malattia. Superato il Shiva, la rituale settimana di lutto della tradizione ebraica per i parenti più stretti, i due si preparano per il ritorno alla normalità, trovando la forza di andare avanti, reagendo al lutto. La donna, insegnante, trova un equilibrio all’interno dell’attività didattica mentre l’uomo, duramente provato dal evento, decide di conoscere di più del mondo che lo circonda per scoprire quali siano le cose veramente importanti.