Daniele Vicari abbandona i temi politici di Diaz (2012) per affrontare una vicenda per certi versi ancora più drammatica, perché rappresentativa di una società che impoverisce non solo da un punto di vista economico ma di possibilità dell’esistenza stessa. Un ritratto di un mondo deteriorato di cui è difficile pensare, quanto meno in tempi brevi, ad un radicale cambiamento.
Racconta dell’esistenza piena di speranza di chi dalla vita ha avuto molto ma rischia di soccombere sotto il peso di impegni sempre gravosi, della gioia ma anche del dolore di una madre che vive per i figli ma che e non riesce mai a vederli, di una società in cui spesso è la donna ad essere costretta a portare il maggiore peso della coppia. Mariti che sono disoccupati, famiglie costruite con amore in tempi più sereni e che ora rischiano di essere ingestibili. Su tutto questo la povertà, quello stato di vita precaria che costringe ad accettare di essere pagati in nero e poco pur di non soccombere ad una realtà in cui è difficile pensare al futuro quando il presente è così difficile da affrontare. Il regista racconta di una periferia romana senza doverla rendere più drammatica di quella che è con la presenza di droga e minicriminalità; Quello che più fa stare male è scoprire quanto dolore ci possa essere nella vita di tante persone normali, esseri che potremmo tranquillamente incrociare nel corso della giornata e di cui difficilmente saremmo in grado di intuire i drammi. Quello che colpisce di più è l’assuefazione a questa vita della protagonista, una donna che non ha la forza e forse il desiderio di combattere, una persona apparentemente serena che trova i suoi momenti più veri quando per 4 ore al giorno si sposta per raggiungere il lavoro e tornare a casa: nell’anonimato della metro e dei bus ha il tempo di pensare, di ragionare, anche di piangere. Contraltare a questa figura per certi versi tradizionale – madre, moglie, tutto casa e lavoro – si pone una giovane che vive nello stesso palazzo e che ha gestito la propria vita in maniera diametralmente opposta creando un rapporto conflittuale con la borghesissima madre che non accetta di vedere la figlia abbandonare gli studi per divenire ballerina che si esibisce soprattutto in discoteche. Lei è l’opposto di quella che è divenuta la sua più grande amica: libera, senza famiglia (forse con tendenze lesbiche) che ha messo davanti a tutto la qualità della vita. Attraverso loro, Vicari a voluto farci vedere uno spicchio di società che non ha più solide basi e rischia in ogni momento di naufragare. Non sempre riesce a creare una narrazione credibile e coerente, ma il suo sforzo merita comunque di essere apprezzato. Protagonista incontrastata è la siciliana Isabella Ragonese che racconta con grande naturalezza un personaggio molto variegato: emoziona ma fa innervosire proprio per questa mancata volontà di reagire, facendosi franare addosso la propria esistenza. Buona comprimaria la ballerina Eva Frieco, tornata al cinema dopo avere nel 1997 interpretato Marianna bambina in Marianna Ucrìa di Roberto Faenza, che mai carica troppo l’esteriorità di donna libera a lei affidata. Il regista ha scelto di evitare un happy end a tutti i costi, rimanendo coerente con quanto raccontato. Due donne che hanno fatto scelte molto diverse nella vita sono legate da una grande amicizia aiutandosi, comprendendosi, volendosi bene, ma la solidarietà reciproca non sempre basta a lenire le difficoltà materiali e psicologiche della loro vita.
