Nella sua opera prima il quarantenne romano Simone Godano si avvale di due interpreti che fanno di tutto per coprire gli inevitabili momenti meno riusciti ma a loro è chiesto fin troppo, tanto da dare una prova sopra le righe che, alla lunga, stanca.
Nel 2010, assieme al fratello Leonardo, aveva diretto il corto Niente orchidee interpretato da Beppe Fiorello e presentato al Festival di Venezia con discreto successo, poi si era cimentato nel mondo degli audiovisivi fino a trovare due produttori coraggiosi’, Matteo Rovere e Roberto Sessa, che gli hanno permesso di realizzare questo suo sogno. Con l’apporto distributivo della Warner Bros Italia, molto attiva sul nostro mercato con accordi interessanti con i gestori dei locali, ha raggiunto la terza posizione in classifica al Box Office. Un vero peccato che film più interessanti ed originali, come La mia famiglia a soqquadro di Max Nardari, non appoggiati dai potenti del cinema siano passati sullo schermo velocemente senza che nessuno se ne sia accorto. Moglie e Marito ha molte somiglianze con tanto cinema soprattutto statunitense – non a caso la sceneggiatrice Giulia Louise Steigerwalt è nata oltreoceano e probabilmente conosce bene quella realtà – ma, in coppia con l’altra new entry Carmen Roberta Danza, non ha aggiunto niente di nuovo, originale, interessante alla sceneggiatura. Ci si domanda perché ai tre, per la prima volta attivi nel lungometraggio, non sia stato affiancato qualcuno di maggiore esperienza che avrebbe probabilmente aiutato a rendere migliore il film. La scelta di fare parlare la donna con animo d’uomo con un linguaggio volgarmente al maschile è una forzatura, come la scena in cui si siede spalancando le gambe facendo vedere le mutande: non ci sembra che gli uomini si mettano in quella posizione quando si accomodano. E ogni movimento fatto dalla volenterosa e a tratti brava Kasia Smutniak è esagerato, inutilmente farsesco. Pierfrancesco Favino è bravissimo nel rendere le movenze di un gay, ma poco assomiglia ad una donna sia nel parlare che nell’interpretare i normali momenti della vita di tutti i giorni. Manca l’indicazione del regista – oppure tutto doveva essere volutamente grottesco – nel creare personaggi credibili. Ai comprimari è chiesto di limitarsi ad essere scontate macchiette, alle musiche il compito di collegare varie scene. Oltretutto, la scelta della macchina del pensiero con l’uso di lampadine invece che di elementi della più attuale tecnologia può essere divertente ma non se diviene centro di troppe inquadrature. Una coppia in crisi va da un consulente matrimoniale per tentare di salvare il salvabile. Lei è una giornalista che diviene anchor woman, lui un frustrato neurochirurgo che studia la possibilità di leggere il pensiero utilizzando macchinario da lui inventato ma che funziona poco. Lo porta a casa, collega il suo cervello con quello della moglie e, per un salto di tensione, sembra che si invertano le identità: complicazioni.