Aki Kaurismaki non è solo il regista più importante della Finlandia, ma è anche un autore di livello mondiale pluripremiato in numerosi festival cinematografici e ben considerato dalla critica. L'altro volto della speranza è il suo ultimo film, ha ottenuto il premio per la regia all’ultimo festival di Berlino e segue, a sei anni di distanza, un altro titolo emblematico: Miracolo a Le Havre.
Dopo aver preso di mira l’indifferenza e la spocchia della società finnica è ora la volta di metterla a confronto con il problema dell’emigrazione. Nel film precedente Idrissa, un ragazzino di colore approdato dall’Africa, riusciva a riprendere la via per raggiungere la madre immigrata in Francia grazie all’aiuto di un gruppo di figure popolari: un lustrascarpe, una fioraia, un fruttivendolo, una barista e la burbera complicità di un poliziotto. Questa volta sullo schermo non ci sono solo personaggi positivi e solidali, ma, assieme agli altri anche i razzisti dell’esercito per la preservazione dei valori finnici, energumeni pronti a menare le mani e a tirare fuori i coltelli. Razzisti e ignoranti che feriscono il protagonista chiamandolo ebreuccio, mentre si tratta di un mussulmano fuggito dalla Siria dopo aver perso quasi tutti i parenti in un bombardamento forse dell'esercito governativo o dei ribelli, o degli americani, o dei russi, o dell'Isis. Il film racconta due solitudini: quella del profugo che spera di rincontrare la sorella, unica superstite della sua famiglia, che si vede rifiutare l’asilo politico in quanto in fondo la situazione della Siria non è poi così drammatica e quella di un commesso viaggiatore in camicie che, grazie a una consistente fortuna al gioco diventa proprietario di un ristorante pagato in nero ad un connazionale che non salda da mesi i dipendenti e si e rubato persino le loro mance. Sono due mondi disperati che ritrovano un destino comune, dopo un primo confronto a suon di pugni, in una strada da percorrere assieme contro le convenzioni di una società tanto apparentemente ordinata quanto feroce. Un film, come avrebbe detto Don Gallo, angelicamente anarchico che richiede allo spettatore pazienza, complicità e voglia di andare oltre la facile drammaturgia delle produzioni correnti.