In E’ solo la fine del mondo (Juste la fin du monde) del francese Xavier Dolan, ingiustamente coronato con il Gra Premio della Giuria al Festival di Cannes 2016, il regista commette un errore di fondo, quello di pensare che il passaggio di un testo teatrale allo schermo cinematografico - in questo caso il copione omonimo scritto dall’attore, regista e drammaturgo Jean-Luc Lagarce (1957 – 1995) nel 1990 mentre era ammalato di AIDS – non richieda altro ingrediente stilistico se non l’uso insistito, ossessivo del primo piano.
E’ una scelta che isola gli attori dal contesto e, malgrado i dialoghi fluviali, li rende ben poco rappresentativisi. Uno scrittore ammalato terminale ritorna in famiglia, ma madre, sorella, cognata e fratello non hanno tempo per prestare attenzione alle sue ultime parole. L'incontro si chiude come si era aperto: nell’indifferenza e chiusura in se stessi dei familiari. Il tutto narrato con grande insistenza sui visi degli attori e l’immersione in un’atmosfera claustrofobica che, a lungo andate, appare più un vezzo stilistico che non una vera necessità espressiva. L’idea è quella che le immagini si adeguino al fluire delle parole, ma così non è e i dialoghi hanno un ruolo preminente sul rappresentato. Come dire che siamo in presenza di un film che configura un esempio da non seguire nel rapporto fra palcoscenico e grande schermo.