Ne 2012 Massimo Gramellini pubblicò il libro Fai bei sogni in cui raccontava il difficile rapporto con il ricordo della madre morta suicida quando lui aveva nove anni. Di quella fine tragica lui non seppe nulla sino alla maturità e dopo la scomparsa del padre questo in quanto i parente più stretti gli avevano taciuto l’evento preferendo parlargli di una morte improvvisa per infarto.
Marco Bellocchio ha portato sullo schermo questo testo con un’operazione che solo parzialmente si ricollega alle corde più profonde che segnano il suo cinema. Fra queste un ruolo fondamentale ha il contrasto con l’autorità, che il regista legge come un elemento base per il passaggio fra giovinezza e maturità. Il cineasta che abbiamo conosciuto in passato emerge solo in alcuni momenti, quasi del tutto estranei allo svilupparsi della storia narrata: la figura del prete che insegna svogliatamente astronomia, il manager che si uccide all’arrivo dei finanzieri che devono arrestarlo, la sequenza di Sarajevo con il fotografo che costruisce l’immagine mettendo in primo piano il bimbo intento ad una gioco elettronico sullo sfondo del cadavere di una donna anziana. Sono spunti bellocchiani che marcano un film per il resto costruito su binari decisamente classici, nel senso che il linguaggio che lo attraversa è segnato da un procedere piano e normale, ben poco consono agli stilemi cari a questo regista. In altre parole un film non d’autore, ma limpido nella costruzione principale, anche se meno armonioso di altre opere di questo cineasta.