Woody Allen è un regista americano amato più dagli europei (pubblico e critici) che non dai compatrioti. La sua ultima fatica, Cafe Society, che ha aperto fuori concorso l'ultimo Festival di Cannes, lo vede ritornale a quel mondo degli anni trenta che sembra gli interessi in modo particolare.
Lo fa raccontando due storie d’amore. La prima ha al centro Bobby Dorfman, giovane ebreo newyorchese arrivato a Hollywood dopo aver lasciato New York e la bottega del padre con la speranza di tentare la fortuna con l’aiuto dello zio Phil, potente agente di dive e divi. La seconda riguarda lo stesso magnate del cinema che si innamora di una segretaria e abbandona la moglie. Il giovane ha messo gli occhi sulla stessa donna e vorrebbe mettere su famiglia con lei. La fanciulla gli preferisce l’uomo più anziano e ricco. Passa il tempo e i due si rincontrano nella Grande Mela ove il ragazzo ha sposato una divorziata e si è fatto una posizione dirigendo un night club di successo, proprietà di un suo parente attivo nel mondo della malavita. L’incontro è breve, ma basterà a resuscitare in entrambi gli amanti la passione di un tempo. Ritorno di fiamma del tutto inutile, in quanto le rispettive esigenze sono ormai segnate da una normalità lontana da quell’unico momento d’ardore. E’ un a storia decisamente normale, anche se l’ambientazione negli anni trenta consente a regista, fotografo (Vittorio Storaro) e costumista (Santo Loquasto) di confezionare un film professionalmente accattivante, imbastito con perizia e abilità anche se privo di vero ingegno sia sul piano narrativo sia su quello stilistico. In poche parole un film perfetto dal punto di vista dell’abilità di coloro che vi hanno preso parte, ma quasi amorfo sul piano dell’originalità.