Spira mirabilis (Spirale meravigliosa) porta la firma di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Il titolo nasce da nome che il matematico Jakob Bernoulli (1654 –1705) diede alla spirale di crescita o logaritmica descritta la prima volta da René Descartes (1596 – 1650).
Il film non ha una vera e propria trama, intesa in senso narrativo, ma assembla due ore d’immagini organizzate attorto a vari temi. Il fuoco (gli indiani d’America che celebrano nel cimitero di Wounded Knee la sconfitta del loro popolo, la stessa cantata da Luciano Ligabue e Fabrizio De Andrè), la terra (il lavoro di continuo restauro delle sculture poste sul tetto del Duomo di Milano), l’aria (la costruzione di un particolare strumento musicale: l’hang), l’acqua (gli studi del biologo giapponese Shin Kubota sulla Turitopsis detta anche la medusa immortale). Tutto questo commentato dalle letture poetiche di Marina Vlady. È un discorso incentrato sulla morte e la rinascita, in altre parole sulla ricerca dell’immortalità. Un tema sviluppato in maniera cinepoetica, come si sarebbe detto un tempo (vedi i film sperimentali dagli anni settanta e le opere videotroniche di Gianni Toti degli anni ottanta). Sono proprio questi i limiti di un materiale che appare, oltre che eccessivamente dilatato, legato ad una stagione della ricerca cinematografica che pensavamo confinata negli archivi. In altre parole non è una scelta stilistica originale e la decisione dei selezionatori della Mostra di Venezia d’inserirla nel concorso, appare legata più al favore concesso negli ultimi anni ai documentari dalle maggiori rassegne cinematografiche che non una preferenza precisa per il linguaggio adottato dal film. È un limite che non impedisce di apprezzare l’opera per il rigore con cui porta avanti un discorso oggi del tutto fuori moda.