Il tema della guerra fatta con i droni, aerei senza equipaggio comandati a distanza, è uno dei temi che più segnano la morale dei nostri giorni e che il cinema inizia ad affrontare in maniera seria. Ci si chiede, con sempre maggior frequenza, se sia eticamente corretto ammazzare qualcuno, dal comportamento pur riprovevole, privandolo del diritto a un processo e farlo a grande distanza seduti su una poltrona manageriale.
Il diritto di uccidere mette in campo questi temi in un film teso e avvincente, qualche cosa di simile ad una vera e propria storia di tensione e avventura. Una colonnella dell’esercito inglese deve coordinare un attacco missilistico condotto da un velivolo senza pilota in volo sul cielo del Kenya in accordo con i militari americani, i servizi d’informazione kenioti e, soprattutto, con i politici britannici. Il tema è quello di alcuni capi terroristi, fra cui una cittadina inglese e un cittadino americano, riuniti in una casupola alla periferia di Nairobi. Il film naviga in una unicità di tempo che ha venature teatrali, ma evita il luogo comune e la fissità delle immagini mettendo in scena il conflitto fra militari tesi a fare ciò che va fatto e i politici preoccupati soprattutto delle conseguenze, a livello di popolarità, delle loro decisioni. Anche se lo sguardo sui personaggi in divisa è più giustificativo, tranne il momento in cui l’alta ufficiale chiede al sergente di colore di stendere un rapporto che giustifichi in qualche modo la decisione presa, di quello verso i politici la cui pusillanimità è sferzata in modo diretto. Da un punto di vista espressivo siamo alla presenza di un’opera dal taglio classico, quasi del tutto prima di originalità narrativa, ma questa normalità non compromette il valore di denuncia e partecipazione del film.