Gianfranco Rosi (1985) è un cineasta dalla doppia nazionalità, italiana e americana, e uno dei maggiori documentaristi di cui disponga il nostro cinema. Il suo Sacro GRA (2013) ha vinto il Leone d’Oro (prima volta nella storia) alla 70ma Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.
Ritorna ora alla ribalta con Fuocoammare, realizzato dopo un soggiorno di oltre un anno sull’isola di Lampedusa. Questo regista utilizza una tecnica particolare rispetto a quella adottata da molti altri autori: fotografa la realtà che lo circonda senza aggiungervi alcun commento. Il suo cinema mostra ciò che vede la macchina da presa lasciando allo spettatore il compito di trarne le conclusioni. Questa volta si rivolge a due scenari abbastanza distinti: quello delle popolazioni che vivono sull’isola e quello dei migranti che vi approdano. Fra i primi sceglie un ragazzino e il medico che lavora nella ASL locale. Il giovane mostra i segni di una violenza incipiente e di una crudeltà direttamente collegate all’asprezza dell’ambiente che lo circonda. Si costruisce una fionda con cui va a caccia di uccelli, anche se arrivato - di notte - vicino a un volatile lo accarezza teneramente, usa le pale dei fichi d’india come bersagli, affronta con indifferenza il problema dei migranti. Il dottore, invece, prova una dolorosa compassione per i poveracci e le poveracce che deve curare, racconta con parole addolorate i numerosi casi che deve affrontare. In fondo ciò che emerge sono due mondi ugualmente disperati e in fuga dall’emarginazione e dalla fame. Un capitolo rilevante è dedicato ai soccorritori. Marinai e piloti che lavorano incessantemente e prendendo seri rischi per salvare i disgraziati che fuggono da guerre e miseria. E’ questa la parte più significativa del film: un omaggio privo di commenti a persone che si sacrificano per compiere il loro dovere e, soprattutto, per aiutare chi ha bisogno.