Molti sono i film basati sulla vita di persone famose, forse per la curiosità da parte del pubblico di scoprire i segreti di personaggi noti per quello che hanno fatto ma di cui la vita privata è sconosciuta o quasi. In poche settimane, sono apparsi tre film legati al fenomeno del biopic: Life (2015) di Anton Corbijn sul rapporto trasformato da professionale in amicizia di un fotografo di quella testata con James Dean, Steve Jobs con la candidatura al Oscar per Michael Fassbender, L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo con un bravissimo Bryan Cranston anche lui in corsa per la statuetta.
Ora è la volta di The End of the Tour - Un viaggio con David Foster Wallace di James Ponsoldt, qui al suo terzo lungometraggio dopo Smashed (2012), proposto in Italia al Festival di Torino, e The Spectacular Now (2013). Mentre appare scontato l’interesse per Jobs, autentico deus ex machina dell’informatica, James Dean icona di un cinema che non ha più creato divi-mito del suo livello e per altri personaggi come lui universalmente noti, risulta curioso ed interessante valutare la scelta dei produttori di investire su film che raccontano di scrittori noti ma non notissimi. Un discorso a parte merita Neruda, in uscita quest’anno, diretto dall’ottimo regista cileno Pablo Larraín e interpretato dal bravissimo messicano Gael García Bernal. Quello che stiano recensendo è un’opera molto curata nella ricostruzione dei fatti e basata sul dialogo tra due uomini che in cinque giorni si studiano, diventano amici ma, nello stesso tempo, continuano a diffidare uno del altro. L’intervistato, trentaquatrenne scrittore di successo, e l’intervistatore, anche lui scrittore che per arrotondare firma articoli per la rivista cult Rolling Stone. David Foster Wallace (1962 – 2008) è una delle figure più importanti negli ultimi trent’anni della letteratura americana. Fra i suoi libri ci sono La ragazza dai capelli strani (Girl with Curious Hair, 1990), il saggio Una cosa divertente che non farò mai (A Supposedly Fun Thing I'll Never Do Again, 1997) e quel Infinite Jest (Infinite Jest, 1996) di 1.281 pagine pubblicato in Italia da Einaudi, ambientato a Boston. Alla base del film c’è l’intervista, avvenuta nel 1996 subito dopo la pubblicazione del edizione statunitense del libro. David Lipsky credeva molto a questo lavoro e si era bene documentato. Trascorse cinque giorni al fianco del romanziere, viaggiando con lui per centinaia di chilometri, assistendo alle lezioni del suo corso di scrittura e agli incontri con i lettori organizzati per vendere più copie del libro. Erano gli ultimi impegni fissati dal suo agente letterario e il romanziere desiderava solo tornare a casa dai suoi cani. E’ un film di attori, in cui tutto è basato sulle espressioni dei volti, sui bei dialoghi sullo sfondo di un Minnesota soffocato da una coltre di neve che copre ogni cosa. James Ponsoldt ha creato un road movie in cui trasforma le auto utilizzate in ipotetici lettini da psicoanalisi. Peccato che la verbosità non si trasformi sempre in chiarezza su quanto detto per cercare di capire meglio i due personaggi, spesso più interessanti nelle immagini che non per quello che riescono a trasmettere allo spettatore. La perfetta coesione tra pagina scritta e film a volte penalizza quest’ultimo, perfetto nelle ricostruzioni ma privo di effettiva emozionalità.