Nel 1958 la Repubblica Federale Tedesca è protesa a incrementare e sfruttare il benessere che è arrivato subito dopo il disastro della seconda guerra mondiale, terminata tredici anni prima. La rimozione dell’orrendo passato nazista e dei crimini commessi o tollerati da un popolo intero fa parte di questo clima di generale oblio.
Proprio in quelle settimane un giovane magistrato della procura di Amburgo si mette in testa, appoggiato dal procuratore capo, di indagare sui delitti commessi dalla gente comune coinvolta nell’orrore del campo di sterminio di Auschwitz (Konzentrationslager Auschwitz). La sola idea dell’indagine, che finirà per coinvolgere migliaia di persone comuni che hanno partecipato attivamente ad una follia fatta di torture, pestaggi, uccisioni sommarie, morti per freddo e fame, desta il sospetto e, poi, l’aperta riprovazione di un’intera nazione che sembra voler dimenticare ciò che è successo poco più di un decennio prima e i cui protagonisti sono rientrati nei ranghi e hanno ripreso, come se niente fosse a svolgere i loro mestieri nella silente complicità di vicini, amici, parenti. Questi aguzzini, spesso imbevuti di sadismo, sono ritornati a lavorare in uffici, aule scolastiche, imprese artigiane coprendo d’oblio delitti orrendi che hanno commesso. Il regista tedesco d’origine italiana Giulio Ricciarelli scopre questo verminaio attraverso la rievocazione di una vicenda realmente accaduta che rivela la complicità, non limitata agli anni del regime, di un intero popolo. Lo fa ne Il labirinto del silenzio un film dal taglio classico che ricorda il cinema giudiziario americano. Non a caso la prima parte, quella in cui si avvia l’indagine, è la più convincente e coinvolgente, mentre la seconda, quella in cui predominano i dubbi e i sensi di colpa del protagonista, appare più debole. Particolarmente fastidiosa è la storia d’amore fra il giovane magistrato e una giovane e promettente stilista. Una parentesi che dà vita ad una serie di sequenze dall’esito prevedibile che nulla hanno a che fare con l’impianto base di un’opera che, nonostante queste cadute, resta importante politicamente e moralmente.