E’ il 1957 la guerra fredda impazza, gli americani hanno mandato a morte solo pochi anni prima Ethel (1915 – 1953) e Julius Rosenberg (1918 – 1953), attivisti comunisti accusati senza prove certe di essere spie dell’Unione Sovietica, e nelle scuole di tutti i livelli imperversano gli insegnamenti su come sfuggire alle radiazioni scatenate da un bombardamento atomico da parte dell’URSS. I sovietici ricambiano descrivendo gli Stati Uniti come un paese razzista e antioperaio.
In questo clima capita la cattura e il processo a Rudoľf Ivanovič Abeľ (1903 – 1971) che mascherava le sue attività spionistiche sotto le spoglie di un ritrattista di modesta fortuna. Quasi negli stessi mesi i sovietici riusciranno ad abbattere una aereo spia U2 e a catturarne il pilota che, anziché suicidarsi come prescriveva il protocollo della CIA che lo aveva indagato, preferì continuare a vivere. La quasi contemporaneità dei due eventi sfociò in uno scambio di spie avvenuto in Germania, sul ponte di Glienicker, a cui si aggiunse, da parte tedesco orientale e grazie alla cocciutaggine del negoziatore, la liberazione dello studente americano Frederic Pryor, imprigionato nei giorni della costruzione del Muro di Berlino. Steven Spielberg ritorna su questa storia con Il ponte delle spie in cui, soprattutto grazie all’apposto alla sceneggiatura dei fratelli Coen, sviluppa un discorso lucido e impietoso dove non ci sono buoni o cattivi, ma solo persone che svolgono i ruoli che si sono assunti. Paradossalmente le sole figure positive sono quelle dell’avvocato negoziatore e della spia Abel. Il primo pretende di dimostrare, nel pieno della guerra fredda (!!), che la superiorità sul regime totalitario moscovita può essere dimostrata solo osservando scrupolosamente le regole democratiche. Il secondo, da militare ligio al dovere, accetta quasi con fatalismo tutto ciò che gli accade negli Stati Uniti o che gli potrebbe capitare una volta rientrato in Russia. Ne risulta un film avvincente e lucido, uno dei migliori fra quelli firmati da questo cineasta.