Claudio Cupellini (che qui torna al cinema dopo aver co - diretto la prima e la seconda serie televisiva Gomorra) pensa in maniera anacronistica e stereotipata che un italiano residente all’estero sia una persona isolata e indifesa, capace solo di aggredire e usare mali modi, che reagisce alla sua debolezza con la violenza, è emarginato e per odia tutti.
Alaska, nome del locale notturno gestito da un amico del protagonista, è il terzo lungometraggio per il cinema diretto da questo autore. E’ un film lungo e ripetitivo che racconta una storia in cui è mescolato amore, odio, violenza, dolci sentimenti in un cocktail da un sapore non gradevole, incapace di soddisfare il palato sia degli appassionati di amori difficili sia, tantomeno, di chi ama film basati sull’azione. Oltre due ore che, a tratti, divengono insopportabili, mettendo a dura prova la resistenza dello spettatore. E’ la storia di due persone che non possiedono nulla se non se stessi. Privi di radici, non hanno un luogo dove sentirsi a casa. Si conoscono per caso, sul tetto di un albergo a Parigi, e già a partire da questo primo incontro si riconoscono come fragili, soli e ossessionati da un'idea di felicità che sembra irraggiungibile. Fausto è italiano ma vive a Parigi, lavorando come cameriere in un grande albergo cercando di sopravvivere e non capendo perché a lui la ricchezza sia negata. Nadine è una giovane francese, e possiede la bellezza di una ventenne. Il destino avrà in serbo per loro non pochi ostacoli e sorprese. Continueranno a incontrarsi, a perdersi, a soffrire ed amarsi per scoprire, alla fine, che tutte queste avventure erano solo una parte della loro inarrivabile e difficile love story. Un percorso in comune lungo cinque anni, durante i quali entrambi conosceranno, in momenti diversi, gli abissi più neri della disperazione e le vette più alte dell’affermazione sociale. Il tutto con poco vigore drammatico e molto sentimentalismo melodrammatico. La regia non è del tutto negativa ma risulta sprecata da una sceneggiatura che spesso scivola verso il ridicolo, con fatti poco credibili e una storia che potrebbe essere raccontata benissimo in novanta minuti o forse meno. Elio Germano è bravo come sempre ma sembra condannato a ripetere all’infinito il suo personaggio, senza aggiungere nulla al suo bello ma scalognato. Se continua così, potrà trovare posto solo nelle telenovele latinoamericane.
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