Pecore in erba, film d’esordio del trentunenne Alberto Caviglia, ha la struttura di un falso documentario su un immaginario Leonardo Zuliani che, sin dalla più tenera infanzia, coltiva un odio viscerale nei confronti degli ebrei.
Nato in una famiglia trasteverina, con un nonno ex – partigiano che conserva come una reliquia la pistola Beretta usata durante la Resistenza, otterrà il successo con il fumetto Mario il sanguinario, una linea di abbigliamento e una riedizione della Bibbia, ridotta a un centinaio di pagine, da cui sono state espurgate tutte le parole inerenti gli ebrei e l’ebraismo. La misteriosa scomparsa di questo campione dell’antisemitismo scatena un vero parossismo a livello nazionale che coinvolge stampa, televisioni e spinge una folla immensa a radunarsi nei pressi della sua casa per testimoniargli affetto e solidarietà. Arrivano persino i maggiori esponenti della comunità ebraica che temono non vi sia più un avversario tanto bieco e feroce da giustificare i loro anatemi. In poche parole una satira grottesca e amara che vorrebbe mettere alla berlina razzisti, negazionisti, fascisti e neonazisti. Un’operazione rischiosa e difficile che il regista governa solo in parte, scegliendo più l’aspetto della caricatura superficiale, che non quello della derisione motivata. In altre parole l’obiettivo di denunciare la follia dell’antisemitismo e del negazionismo, lascia il passo alla derisione pura e semplice che utilizza stereotipi e situazioni inefficaci (si veda l’intera parte dedicata alla famiglia e, in particolare, alla figura del nonno) che fanno scivolare il film, lentamente, ma decisamente, sul versante ridanciano mettendo in ombra quello dell’indignazione civile.