Vincenzo Marra è un regista sensibile ai problemi del nostro tempo. Lo aveva dimostrato già con il film d’esordio - Tornando a casa (2001), vincitore del premio messo in palio dalla Settimana Internazionale della Critica alla Mostra di Venezia, un testo che guardava con occhio lucido e impietoso alla vita e la povertà dei pescatori napoletani.
Con La prima luce affronta uno dei drammi meno citati: quello dei padri a cui madri di nazionalità non italiana, spesso extracomunitaria, hanno sottratto i figli portandoli con sé in paesi lontani. Poco possono tribunali e funzionari del ministero degli esteri, davanti ai silenzi o le aperte complicità degli organismi giudiziari e amministrativi delle nazioni in cui queste mogli straniere sono ritornate. Il film racconta di un avvocato barese la cui compagna, di passaporto cileno, ritorna in patria - senza il suo consenso - con il figlio di pochi anni. Disperato arriva nel paese sudamericano per recuperare il bimbo, ma deve vedersela con un pseudo investigatore privato, che gli spilla quasi tutto il denaro che ha in tasca, e con un sistema giudiziario che favorisce la donna, soprattutto quando la controparte è rappresentata da uno straniero. Il film si chiude interlocutoriamente con la possibilità che il rapporto fra i genitori sia ricomposto per il bene del bimbo, ma dopo che il tribunale ha deliberato sostanzialmente a favore della madre, anche se la sentenza è mascherata come rigetto delle istanze della donna. E’ l’opera migliore di questo cineasta che mantiene la l’obiettivo fermo, rinunciando a facili scene madri o a pistolotti strappalacrime. Ogni tanto i giornali ci ricordano, spesso con minuscoli articoli nascosti nelle pagine interne, quanto sia vasto questo dramma dei padri che non possono più abbracciare i figli. Le statistiche ci dicono che sono migliaia, a loro il film rende giustizia parziale e tardiva.