La regola del gioco (pessimo titolo italiano scimmiottante quello del famoso film La Règle du jeu (1939) di Jean Renoir) di Michael Cuesta racconta il calvario di Gary Webb (1955 – 2004), giornalista di un quotidiano di provincia, il San Jose Mercury News, che scopre con tenacia, ma quasi per caso, uno dei maggiori scandali dell’America degli anni ottanta.
Vale a dire l’alleanza tra la CIA (Central Intelligence Agency) e i trafficanti salvadoregni che ebbero mano libera nello smercio della droga a Los Angeles con l’impegno di destinarne i proventi all’armamento dei Contras, movimento di destra sostenuto dagli USA. Secondo quanto documentato dal reporter nell’inchiesta pubblicata sotto il titolo Dark Alliance (Alleanza Oscura) tale operazione fu imbastita per aggirare il veto del Senato americano al finanziamento di movimenti latinoamericani anticomunisti e fu condotta con la piena acquiescenza del governo federale e della CIA, che arrivarono ad ostacolare le indagini della DEA (Drug Enforcement Administration). A un certo punto la direzione del giornale si tirò indietro, il giornalista fu trasferito in una redazione periferica ad occuparsi di quisquilie e fu pubblicata una lettera aperta in cui i responsabili della testata si scusavano con i lettori e le autorità per l’innaccuratezza di quanto pubblicato. Il giornalista, che nel frattempo aveva vinto il prestigioso premio Journalist of the year (Giornalista dell’anno), si licenziò, ma non riuscì più a trovare lavoro in un quotidiano. Abbandonato dalla moglie e depresso, fu rinvenuto cadavere il 10 dicembre 2004 con due colpi di fucile alla testa. La sua fine fu classificata come suicidio, nonostante la palese incongruenza del modo come era avvenuta. Il film è decisamente pregevole nella parte in cui segue le tracce di uno dei generi di maggior impegno civile del cinema americano, quello dell’inchiesta giornalistica contro il potere, ma perde qualche colpo sul versante della storia privata del protagonista. Qui emerge una tentazione allo stereotipo e una voglia di melodramma che pesano negativamente sul bilancio dell’opera senza arrivare, tuttavia, a comprometterne irreparabilmente il bilancio.