La cinquantaquattrenne danese Susanne Bier è regista che ama raccontare storie difficili in cui i suoi protagonisti non sempre sono dei vincitori. Del resto, è donna dalle molteplici esperienze di vita, esperienze che sono riuscite ad arricchirla anche come cineasta. Prima di dedicarsi al cinema ha studiato arte in Israele e poi architettura alla Architectural Association di Londra; solo in seguito si è diplomata alla Scuola Danese di Cinema a Copenaghen.
Con Second Chance firma un film imperfetto ma interessante, che coinvolge ma non convince. Questa regista ha vinto il premio Oscar con In un mondo migliore (Hævnen, 2010), premiato quale migliore film in lingua straniera, ma ha anche segnato un certo decadimento artistico dopo il film girato ad Hollywood Noi due sconosciuti (Things We Lost in the Fire, 2007), seguito dal romantico e mal riuscito Love Is All You Need (Den skaldede frisør, 2012). Non solo, dopo Second Chance ha diretto il pessimo dramma Una folle passione (Serena, 2014) già apparso tristemente sui nostri schermi. Da questo flop il ritardo nella presentazione del thriller che difficilmente troverà riscontro trionfale in Italia, ma anche nei pochi paesi in cui è stato presentato, anche per lo scarso interesse ottenuto nei molti festival in cui è stato presentato. La vicenda parte dal rapporto tra Andreas e Simon, due poliziotti buoni amici anche se con esistenze diametralmente opposte. Il primo è sposato e conduce un vita tranquilla, l’altro ha divorziato da poco e passa il suo tempo negli strip club a ubriacarsi cercando e trovando risse. Quando vengono chiamati per sedare una lite domestica tra due giovani tossicodipendenti, scoprono che sono genitori di un neonato nascosto dentro un armadio. Quando il figlio di Andreas muore misteriosamente, lui pensa di fare uno scambio tra i neonati. Questo creerà una crisi completa nelle due coppie di genitori. Non sappiamo se sia voluto oppure no, ma il neonato è spesso raffigurato da un bambolotto che poco assomiglia ad un bimbo vero. Inoltre, suona strano che il poliziotto ubriacone, vedendo in crisi il collega ed amico, rinsavisca di colpo abbandonando la vita dissoluta per essergli al suo fianco ed aiutarlo nell’ulteriore dramma che dovrà affrontare. Inoltre, il film è poco credibile nei momenti di azione, nelle sequenze degli interrogatori, nelle figure della madre di lui e dei genitori della moglie. Un pasticcio accettabilmente interpretato, professionalmente girato ma, nello stesso tempo, assolutamente non riuscito.