Il cinema più recente di Woody Allen è segnato, dopo l’inziale passione per i luoghi di Manhattan, da due predilezioni: il fascino per la vecchia Europa (Barcellona, Londra, Parigi, Roma, la Francia in generale) e quello per gli anni venti, meglio per il mito stereotipato di quel periodo. Magic in the Moonlight mette assieme due di questi elementi: la Costa Azzurra e la seconda decade del secolo scorso.
Il film inizia a Berlino nel 1928, qui un prestigiatore inglese di grande fama propone uno spettacolo travestito da cinese e facendo scomparire un intero elefante, oltre alle solite donne segante in due e i misteriosi cambi di collocazione di lui stesso. Un amico lo contatta proponendogli di passere un periodo di riposo in una lussuosa villa sulla costa mediterranea con il recondito obiettivo di smascherare un’americana, giovane e minuta che, accompagnata dalla madre, irretisce i ricchi possidenti facendo loro credere di essere in grado di evocare i defunti e leggere nella mente di chi le sta davanti. Dopo qualche schermaglia in cui entra anche un’anziana zia del protagonista, la cosa si rivela uno scherzo crudele giocato al protagonista da un suo amico e concorrente. Troppo tardi, il legnoso prestigiatore ha già perso la testa per la bella americanina con cui convoglierà a (prevedibili) nozze. E’ una storia esile, impaginata con grande cura, fotografata nel migliore dei modi, ricca di bei costumi e d’auto d’epoca, ma del tutto priva di quei minimi elementi di riflessione e ironia che rendono interessanti e piacevoli la maggior parte delle altre opere di questo cineasta. Sembra quasi che il regista si sia fatto prendere la mano dalla confezione, dimenticandosi di ciò che vi avrebbe dovuto mettere dentro per cui ne è nato un film professionalmente inappuntabile, ma ben poco interessante.