Laurent Cantet è un regista francese sensibile ai temi sociali. Già dal suo primo film per le sale, Risorse umane (Ressources humaines, 1999), aveva affrontato il mondo del lavoro, fatto rilevante in anni in cui il cinema se ne disinteressava quasi del tutto. E’ ora la volta della politica con la P maiuscola che domina Ritorno a L’Avana (titolo modesto, rispetto all’originale Ritorno a Itaca, denso di echi omerici).
Cinque amici, quattro uomini e una donna, si ritrovano per una rimpatriata su una azotèa, la parte privata di una terrazza condominiale di un palazzo fatiscente che si affaccia sul Malecón, il lungo viale che accompagna il fronte oceanico. L’occasione è quella del ritorno sull’isola caraibica di uno di loro, un drammaturgo e scrittore emigrato clandestinamente a Madrid quindici anni prima. E’ un fluire di chiacchiere, ricordi, pettegolezzi, sfottò, invettive. Un dialogo fitto e bruciante in cui si misurano le rispettive delusioni e fallimenti. Sembrerebbe una versione aggiornata del Il grande freddo (The Big Chill, 1983) di Lawrence Kasdan senonché il regista preme sull’acceleratore politico trasformando il film in un ritratto impietoso di una rivoluzione che ha ucciso i sogni che lei stessa aveva suscitato. Sono cinque intellettuali – un ingegnere, un paio di scrittori, un pittore, un medico oculista – che hanno creduto nella revolución, ne hanno sopportato e giustificato i momenti di maggior durezza – uno di loro è andato a combattere in Angola scoprendo proprio in Africa la corruzione che serpeggia nei dirigenti di esercito e politica – ritrovandosi con condizioni economiche miserabili, interdizioni a creare, ambienti di vita poverissimi. In questo modo le conversazioni, contenute in un lasso di tempo che va dal tardo pomeriggio all’alba del giorno dopo, diventano il quadro impietoso di una delusione collettiva, il segno tangibile del naufragio di un’ondata di sogni e speranze che hanno coinvolto un’intera generazione a livello mondiale.