Ermanno Olmi (1931) è uno dei maggiori registi del cinema italiano. Il suo rigore morale ed estetico lo hanno indotto a riflettere a lungo sui film che fa, tanto che in una carriera iniziata, per quanto riguarda i lungometraggi, nel lontano 1959 (Il tempo si è fermato) ha firmato solo diciassette lungometraggi, più l’episodio inserito nel film Tickets (2005) realizzato assieme a Abbas Kiarostami e Ken Loach.
Anche considerando i quattro film per la televisione non si può dire che la sua sia filmografia affollata. Molto importante anche il lavoro di promozione culturale sviluppato attorno alla scuola Ipotesi Cinema da lui fondata a Bassano del Grappa nel 1982. Cattolico intransigente, la sua produzione più recente guarda ai diseredati (Il villaggio di cartone, 2011) e i problemi della chiesa in rapporto alla modernità (Centochiodi,2007). Da un cineasta di questo spessore non ci si poteva certo attendere una celebrazione della Prima Guerra Mondiale, di cui il prossimo anno ricorre il centenario, con fanfare e squilli di tromba. Torneranno i prati è un quadro duro, realistico e, a un tempo, metaforico del primo grande massacro dell’era moderna. Il film, girato in una tonalità che cita apertamente il bianco e nero, si svolge in una notte del 1917, giusto mentre sta maturando la disfatta di Caporetto. In una trincea avanzata, in alta montagna, popolata da uomini distrutti da malattie, freddo e fame, arriva uno dei quegli ordini insensati concepiti a tavolino senza neppure una precisa conoscenza della situazione. Si deve spostare più in alto un punto d’osservazione delle linee nemiche, questo senza tenere conto dal gelo, della luna piena e della vicinanza dell’esercito austriaco. Un soldato è spedito avanti ed è ucciso da un cechino appena fatti pochi passi, un secondo preferisce uccidersi piuttosto che uscire dalla trincea, nel frattempo i nemici scatenano un furioso cannoneggiamento che distrugge ogni difesa. Una parte dei soldati riceve l’ordine di tornare indietro, alcuni, fa cui in tenentino di fresca nomina appena arrivato, restano in attesa di eventi futuri non meno terribili. Il film ha un forte afflato pacifista, prende apertamente parte dei contadini poveri mandati a morire per ragioni che non capiscono, condanna senza mezzi termini l’insensatezza della guerra che, dice una didascalia finale, è una belva che corre sempre per il mondo assetata di sangue. Quale migliore celebrazione della follia che ha precipitato nel baratro milioni di vite?