C’è stata molta delusione, all’ultima Mostra d’Arte cinematografica di Venezia, per il Pasolini portato sullo schermo dall’americano Abel Ferrara. Delusioni innescate da un film pasticciato, parlato per buona parte in inglese e dedicato all’ultimo giorno di vita del grande scrittore e cineasta, il primo novembre del 1975, senza che questo spicchio di esistenza riesca a restituire allo spettatore anche sono una minima parte la complessità e la grandezza dello scrittore e cineasta.
Certo, non era facile recuperare la complessità del pensiero e della personalità di uno fra i maggiori intellettuali del secolo scorso. La sua idea del mondo e la pratica dell’arte sono stati sia profetici (il corsivo sul divorzio, comparso su Il corriere della sera l’indomani della sconfitta del referendum abrogazionista della legge Fortuna – Baslini, rimane un esempio di chiaroveggenza controcorrente) sia fortemente innovativi. Sono proprio questi aspetti a latitare in un film che oscilla fra il collage di sentenze totalmente decontestualizzate e l’immagine personalità di un creatore che, secondo questo regista, sembra dover essere ricordato quasi solo per le stravaganze sessuali. In questo senso la lunga sequenza dell’omicidio in un terreno desolato e ingombro di rifiuti finisce per offrire una sorta di suggello a una visione immotivata e faziosa sia dell’uomo sia dell’intellettuale. In definitiva un’opera modesta e culturalmente anemica, del tutto inadeguata al personaggio e all’epoca in cui si è inserito.