Il cinema del sudcoreano Kim Ki-duk è diviso in due filoni. Nel primo ci sono opera d’ispirazione poetica come Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (Bom yeoreum gaeul gyeoul geurigo bom, 2003) e testi segnati da una forte venatura violenta come Pietà (Pieta, 2012). Due tipi di approccio che segnano anche il suo essere umano profondo: l’aspirazione ad una forte spiritualità e l’indignazione per la violenza e la corruzione che percorrono il mondo.
A proposito di quest’ultimo aspetto non è un caso che si sia schierato contro le autorità del suo paese, a proposito delle molte menzogne diffuse dopo il naufragio di un'imbarcazione che ha causato una strage in Corea del Sud, protesta che lo ha spinto ad indossare la scritta la verità non può annegare. One on One fa parte del filone arrabbiato di questo autore e racconta di un gruppo di giustizieri privati che s’incaricano - sequestrandoli, torturandoli e costringendoli a confessare i crimini commessi – a rendere giustizia ad alcune ragazze violentate e uccise da una banda di potenti che hanno assoldato alcune persone normali da utilizzare come manovalanza. La traduzione letterale del titolo originale suona chi sono io? e sintetizza la complessità che il regista avrebbe voluto dare alla storia. Purtroppo le immagini violente delle torture inflitte ai sequestrati finiscono col fare agio su qualsiasi altro intento, dando al film più il carattere di un horror sanguinolento che non quello di una riflessione morale su una società pervasa, sino alle radici, da una feroce violenza di classe. Il questa prospettiva il film finisce con lo squilibrarsi in favore di un Grand Guignol a tratti banale e dagli sviluppi prevedibili.