Non è una novità che Clint Eastwood sia attratto - oltre che dalla regia e dall’interpretazione - dal mondo della musica, così come è noto che questo cineasta sia uno degli autori di maggior talento di cui dispone il cinema americano. Il suo è un intreccio in cui il cinema non ha alcuna funzione ancillare, come dimostra, solo per fare il primo esempio che viene alla mente, Honkytonk Man (1982), il film che ha tratto dall'omonimo romanzo di Clancy Carlile.
Anche Jersey Boys ha un’origine diversa da quella esclusivamente cinematografica, derivando dal musical (2006) di Marshall Brickman e Rick Elice, trasferito al cinema attraverso una sceneggiatura di John Logan. Il passaggio dal palcoscenico allo schermo è avvenuto mutando nel profondo il linguaggio espressivo, in modo che la storia dei cantanti, riuniti sotto l’etichetta Four Seasons, sia tutt’altra cosa che non un caso di teatro filmato, come testimoniano i frequenti a solo con gli interpreti che si rivolgono direttanebte agli spetttaori. Nonostante che il regista abbia preferito ai divi hollywoodiani gli interpreti del musical e ricevuto il film da Jon Favreau, inizialmente scelto come regista, non è diminuito di un grammo il valore cinematografico di un’opera che, nel tratteggiate difficoltà e contrasti esterni e interni al gruppo, disegna in modo perfetto il clima del cinema degli anni cinquanta e sessanta. In questo il regista mostra la sua maestria e predilezione per il film americano classico. Lo fa sia con la scelta della scenografie – apertamente antinaturalistiche – sia con il modello della recitazione, sia, infine, con i temi affrontati che, oltre a quelli musicali, ruotano attorno al mito dell’amicizia. In altre parole quest’opera, anche se non rientra fra le grandi firmate da questo regista, è un testo di straordinaria qualità, degno di rappresentare al meglio il cinema americano di oggi.
