Nel 1993 l’opinione pubblica degli Stati Uniti fu sconvolta da un grave fatto di sangue. Nella città di West Memphis, in Arkansas, tre bambini scomparvero da casa e i loro corpi, con gravi segni di maltrattamenti, furono ritrovati in uno stagno. L’ambiente della zona era segnato da una religiosità al limite del parossismo per cui, quando le indagini si focalizzarono su tre diciottenni appassionati di musica heavy metal, la certezza della loro responsabilità fu subito accettata dalla maggioranza degli abitanti.
Sottoposti ad un processo a dir poco sbrigativo che, tuttavia, mise in luce l’approssimazione e le lacune che avevano segnato le indagini, furono condannati chi all’ergastolo, chi a morte. Passeranno in prigione ben diciotto anni prima che un nuovo processo li scagioni completamente. Questa vicenda è stata al centro di alcuni documentari che hanno esaminato sia le numerose falle dell’inchiesta sia i pregiudizi che hanno condizionato il processo. E’ ora la volta del regista canadese di origine armena Aton Egoyan che, sulla scia del libro che la giornalista investigativa Mara Leveritt ha dedicato alla vicenda (Devil's Knot: The True Story of the West Memphis Three, 2002), costruisce con Devil's Knot - Fino a prova contraria, un efficace film narrativo incentrato, in modo particolare, su due personaggi: l’investigatore privato che affianca la difesa sin dai primi momenti (interpretato da Colin Firth) e la madre di uno degli uccisi (Reese Witherspoon) che progressivamente inizia a dubitare del comportamento del marito. E’ una di quelle opere in cui la regia sfrutta a fondo gli effetti drammaturgici e scenografici tipici del processo secondo il rito anglosassone, ma è anche un quadro – per la verità poco sfruttato – di una piccola comunità di provincia in cui il bigottismo fa premio sulla ragione. Un buon esempio di cinema di denuncia anche se rimane la voglia di saperne di più.