Grand Budapest Hotel (The Grand Budapest Hotel) dell’americano Wes Anderson è un’opera fantasiosa e coloratissima che segue, in modo volutamente non lineare, la vita di Monsieur Gustave, un concierge che di fatto dirige l’albergo del titolo, collocato nell’immaginaria Zubrowka. Piacente e disponibile, in tutti i sensi, con le ricche clienti ad un certo momento prende sotto la sua protezione il giovanissimo Zero Moustafa, sfuggito a non meglio precisate guerre africane.
Una delle clienti – amanti muore lasciandogli un quadro molto prezioso, donazione che gli eredi della defunta contestano in ogni modo, sino ad assoldare un sicario che tenta in più occasioni di recuperare il dipinto ed uccidere il legittimo proprietario. Questo causa un carosello di eventi, fughe, scontri armati, inseguimenti in cui Monsieur Gustave e il suo protetto patiscono prigione, corrono grandi rischi, subiscono aggressioni fisiche. Il panorama in cui tutto questo s’inscrive è quello di un mondo che alterna guerre e rivoluzioni, trionfi aristocratici e decadenza borghese. Una lunga storia raccontata da un mauro Moustafa, diventato padrone dell’albergo ormai in grande decadenza, ad uno scrittore incuriosito dalle vicende che hanno popolato le cronache dell’edificio e dei personaggi che vi hanno abitato. Il cineasta dedica il film a Stefan Zweig (1881 – 1942), noto scrittore austriaco le cui produzione letteraria rifulse, in modo particolare, tra gli anni Venti e Trenta. Il regista recupera vari elementi riferibili a quel periodo, ad esempio il quadro Egon Schiele (1890 – 1918) che il protagonista lascia al posto di quello ereditato e che il figlio della defunta distrugge in un impeto di rabbia. Ciò che conta in un’opera come questa non è la storia o i personaggi, quanto la fantasia distillata in immagini e formati cinematografici di diverse dimensioni. In poche parole un film da godere con gli occhi.