Un uomo sta attraversando in solitario l’oceano indiano. Non sappiamo perché lo faccia, se per scelta personale o per stabilire una qualche record. A un certo punto il suo yacht, di buone proporzioni ma non mastodontico, si scontra con un container che sta andando alla deriva pieno di scarpe. Forse è caduto da una di quelle gigantesche navi che di contenitori nel portano centinaia, forse è finito in acqua in un porto. Anche in questo caso nulla ci è detto.
Nell’urlo l’imbarcazione subisce una falla che fa entrare acqua rendendo inutilizzabili gli aggeggi elettronici che governavano la navigazione. E’ un guaio, ma il navigatore riesce a tappare lo squarcio con una certa facilità, ma è solo l’inizio di una drammatica odissea. Arriva un terribile tempesta che riduce l’imbarcazione a poco più di un rottame e costringe il nostro uomo, così è significativamente indicato nel cast del film, ad abbandonare il relitto e trovare rifugio su una scialuppa d’emergenza. Tuttavia le disgrazie non sono finite: il battello imbarca acqua a sua volta, i viveri scarseggiano, l’acqua da bere si rivela inquinata, il mare è pieno di squali, le navi incrociate non rispondono ai richiami del naufrago. Non resta che affidarsi all’ingegno e abilità manuale, una scelta che sarà premiata con un salvataggio in extremis, quando tutto sembrava compromesso. All is lost – Tutto è perduto è l’opera seconda di Jeffrey C. "J. C." Chandor (1973) che si era già fatto notare con Margin Call (2011), uno dei film più duri e inquietanti sulle malefatte della finanza. Questa volta fa un passo avanti nella denuncia dell’artificiosità del vivere moderno. Il suo navigatore, significativamente senza nome, esemplifica il recupero dell’umanità e della manualità di fronte a una natura matrigna. Sembrerebbe il classico film costruito a misura di un grande attore, anche se Robert Redford in questo caso non è al vertice della sua arte, ma in realtà è un apologo sull’uomo che ritrova forza proprio nel momento in cui gli vengono a mancare tutti quei supporti moderni che marcano la sua esistenza. Un discorso fatto d’immagini – il film è quasi muto tranne i rumori della natura – che ridimensionano la nostra supposta potenza tecnologica in favore di un recupero dei valori profondi che ci sono propri.