Philomena di Stephen Frears è davvero un bel film. Seguendo le tracce del libro The Lost Child of Philomena Lee (Il figlio perduto di Philomena Lee, 2009) scritto da Martin Sixsmith (1954), il regista segue un’anziana madre irlandese che cerca di rintracciare il figlio avuto in gioventù, da nubile, mentre era rinchiusa in un orfanatrofio religioso le cui suore l’hanno costretta a darlo in adozione.
Sono gli anni cinquanta e la nascita di un figlio fuori dal matrimonio è considerata peccato mortale, peccato su cui gli istituti religiosi speculano vendendo letteralmente i piccini a coppie americane. Tale è stato anche il destino del rampollo della donna. Una volta diventato adulto il ragazzo ha mostrato preferenze omosessuali, è diventato uno dei consiglieri del presidente Ronald Reagan ed è morto causa l’AIDS. La ricerca è condotta assieme a un giornalista che è stato appena messo fuori dell’entourage del primo ministro britannico, siamo negli anni del premierato di Tony Blair, e approda alla scoperta che l’adottato è ritornato in Irlanda anni dopo e si è fatto seppellire in quella terra. E’ il quadro allucinante dell’ipocrisia e la ferocia che attraversano le istituzioni cattoliche, travolgendo l’esistenza di migliaia di giovani madri e centinaia di bambini. Il regista offre il meglio di se, mescolando ironia e dramma, riuscendo a far sorridere e piangere nel giro di poche sequenze. Grande merito va anche a Judi Dench, qui come altre volte, al massimo della sua arte recitatoria. In poche parole un film solido, duro nella denuncia e preciso nella descrizione dei caratteri, straordinario nell’orchestrazione del racconto. Un’opera di grande forza che ci sentiamo di segnalare sin d’ora agli spettatori sensibili e intelligenti.