Non è la prima volta che il cinema legge un ampio brano di storia patria partendo dalla vita di alcuni personaggi. Lo avevano già fatto Dino Risi con Una vita difficile (1961) ed Ettore Scola con C’eravamo tanto amati (1974). Giovanni Veronesi ritorna sulla stessa strada con L’ultima ruota del carro, una storia che copre un vasto arco temporale che va dagli anni sessanta all’oggi. Lo fa seguendo la vita di Ernesto Marchetti, un popolano romano che inizia a guadagnarsi da vivere come tappezziere per poi diventare trasportatore, entrare nel giro della politica che frutta incarichi e denaro nell’era del Partito Socialista di Bettino Craxi, per finire collo sfiorare il berlusconismo trionfante e la possibile ricchezza grazie al gratta e vinci.
E’ un modo d’affrontare la storia del nostro paese che richiede un forte legame fra i personaggi e l’ambiente in cui sono immersi, con un perfetto equilibrio fra gli uni e l’altro. Nel caso specifico il regista muove un passo avanti rispetto alle sue prove precedenti fornite sia come regista sia come sceneggiatore, ma costruisce un film squilibrato sul versante della costruzione e presenza dei personaggi. Come dire che tutto ciò che accade all’esterno della storia familiare del protagonista, dall’assassinio dell’onorevole Moro al trionfo del craxismo sino all’avvento di Silvio Berlusconi, appare più un semplice contorno che non una parte essenziale del quadro. In altre parole il film tende più alla farsa che non della commedia all’italiana e questo per almeno due ragioni. Da un lato c’è la scarsa voglia o capacità dell’autore di affrontare realmente i maggiori snodi sociali, dall’altra ci sono prestazioni attoriali - quella di Elio Germano, per tacere di quelle di Ricky Memphis e Alessandra Mastronardi – al massimo volenterose, ma del tutto inadeguate a tracciare figure che dovrebbero assumere anche valori emblematici.