Oh Boy, un caffè a Berlino segna l’esordio nel lungometraggio del trentacinquenne tedesco Jan Ole Gerster, un debutto consacrato dai numerosi riconoscimenti ottenuti nella competizione che la Germania riserva ai propri film. Un testo quasi senza storia, se si intende con questo termine una collana di eventi eccezionali, che si sviluppa lungo una giornata – dalla prima attinta a quella del giorno seguente – nella vita del poco più che ventenne Niko Fischer che si sveglia nel letto della fidanzata, esce per prendere un caffè e non ci riuscirà per tutto il giorno causa macchinette automatiche rotte, bar in chiusura e amenità varie.
Durante l’infruttuosa ricerca il giovane avrà modo di confrontarsi con vari personaggi, dal padre che ha scoperto che lui ha abbandonato gli studi, a un paio di buffi controllori della metropolitana berlinese, a una ex compagna di scuola che lo ha amato in segreto e che ora danza in spettacoli di dubbia avanguardia, al nuovo vicino di casa, in crisi per il cancro al seno della moglie, al vecchio che muore poche ore dopo che i due si sono incontrati. Il film, girato in uno struggente bianco e nero, è collocabile fra le opere capaci di spettacolarizzare la vita di tutti i giorni portando a compimento un vecchio il sogno di Cesare Zavattini. Se quello del neorealismo è uno dei poli a cui si ispira questo cineasta, l’altro, ancor più forte, è il ricordo della nouvelle vague. Un richiamo denunciato sin dalle prime inquadrature in cui compare una ragazza con una maglietta a righe che ricorda la protagonista di Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1960) di Jean-Luc Godard. Allo stesso modo è possibile cogliere riferimenti a quel New American Cinema che ha rinnovato profondamente, negli stessi anni in cui sbocciava il movimento francese, il modo di filmare e i temi a cui rivolgersi. E’ un modo originale per fare cinema oggi guardando al passato, ma senza impantanarsi in pesanti citazioni, bensì mantenendo una pregevole lievità di toni.