Via Castellana Bandiera è l’opera prima della teatrante Emma Dante che l'ha ricavato da un suo libro. Chi ha dimestichezza con la scena conosce questa attrice e drammaturga i cui lavori hanno ottenuto un ottimo successo e l’hanno collocata fra le figure d’avanguardia del palcoscenico italiano. Il suo mondo è segnato da forti passioni e da una rappresentazione non meno sanguigna del meridione e delle genti che lo abitano. Sono dati rintracciabili anche in questa sua prima regia cinematografica che ruota, apparentemente, attorno a un banale incidente di traffico.
Nella periferia palermitana più degradata due automobili si trovano a fronteggiarsi muso contro muso. Le guidano due donne, un’albanese (l'interprete è Elena Cotta che ha ottenuto la Coppa Volpi all'ultima Mostra di Venezia proprio per questa interpretazione) arrivata in Italia molti anni prima e una signora che, assieme alla compagna, sta andando a un matrimonio. La strada non concede spazi di manovra e una dovrà forzatamente retrocedere, ma entrambe sono parimenti cocciute e nessuna vuole cedere il passo all’altra così la via resta bloccata. Progressivamente la situazione si aggrava, nascono scommesse su chi andrà indietro per prima, personaggi poco raccomandabili si affollano attorno alle due macchine. Solo la morte dell’albanese per cause naturali offrirà un momentaneo sbocco facendo precipitare i due veicoli in un dirupo e, con essi, l’intera gente del quartiere. La metafora è limpida anche perché, nel frattempo, la via si è magicamente allargata – è la trovata migliore del film – ma nessuna delle contendenti ne ha approfittato prese come erano nella sfida che le opponeva. Questo sottolinea, se ancora ce ne fosse bisogno, un rifiuto di piegarsi a un briciolo di compromesso sociale che causa la rovina di tutto e di tutti. Un discorso pregevole e lucidamente disperato – alla fine della contesa strada rimarrà desolatamente vuota – ma ha il difetto di cavalcare una visione negativamente manichea del sud e di chi vi vive. Stando alla regista e attrice sembra quasi che tutti, ma proprio tutti, siano brutti, sporchi e cattivi. Una posizione che certo ha supporti non trascurabili, ma che qui marcia su un binario assolutista e vagamente intollerante. Come dire che, anche se ci sono abbondanti motivi per disperare, non mancano le ragioni per non fare di tutt’erba un fascio e distinguere fra chi si oppone al degrado generale e i molti che, invece, lo accettano o, peggio, lo sfruttano. Cinematograficamente parlando va dato atto alla regista di avere organizzato il racconto con grande abilità e non poche intuizioni, trasformando quello che sembrava un duello rusticano in una metafora sicuramente troppo ampia, ma non immotivata.