La grande bellezza di Paolo Sorrentino è il solo film italiano ammesso quest’anno in concorso, si può subito dire che è un onore meritato, visto che si tratta di un’opera formidabile. E’ una sorta di seguito ideale di sue famosi classici italiani La dolce vita (1960) di Federico Fellini e La terrazza (1980) di Ettore Scola, entrambi premiati al Festival di Cannes, il primo, con la Palma d’Oro, il secondo con il riconoscimento come miglior sceneggiatura e miglior interpretazione femminile (Carla Gravina). Come in quei due gradi classici protagonista è la razza padrona della capitale.
Ciò che cambia e individua in queste opere una sorta di trittico ideale della storia e del clima del nostro paese sono l’approccio morale e la tensione politica. Il grande regista romagnolo è riuscito a fotografare il ceto intellettuale capitolino cogliendone i visi e la volgarità, ma mantenendo anche un orizzonte di speranza ben simboleggiato dalla purezza della giovanissima Valeria Ciangottini che si contrappone al mostro marino, il grande autore degli anni ottanta affonda il bisturi in un ceto politico slabbrato, ma ancora capace di sognare la rigenerazione. Il film di oggi abbandona ogni prospettiva positiva annegandola in una melassa ripetitiva e priva di un qualsiasi orizzonte, sia personale, sia collettivo. A esemplificare questa condizione è Jep Gambardella (un Toni Servillo oltre ogni elogio), autore quarantacinque anni or sono di un’opera prima (L’apparato umano) vincitrice del premio Bancarella e accolta con entusiasmi dai critici. Dopo quell’exploit non ha scritto più nulla, meglio scrive pettegolezzi per una pubblicazione che lo paga profumatamente. Il fatto è che è riuscito a diventare, come afferma lui stesso, un sorta di re della mondanità, un personaggio la cui partecipazione non è sola richiesta da chi organizza feste, ma che è anche in grado di decretarne il successo o il fallimento. Il film non ha una struttura lineare, ma affianca numerosi brani di party, incontri con personaggi alla moda o della grande nobiltà, spettacoli e performance teatrali stupidamente originali. E’ un vasto affresco popolato da religiosi gourmet, monache sante usate da astuti porta parola, attempate spogliarelliste ancora in grado di mostrare una precisa dignità, gestori di night eroinomani, irreprensibili borghesi che si rivelano latitanti di Mafia, poeti afasici, drammaturghi frustrati. E’ un affresco imponente che ricorda i quadri di Pieter Bruegel (1525/1530 – 1569) in cui decine di figure impegnate nelle attività più diverse concorrono a formare un grande ritratto del mondo. Qui, senza un preciso filo narrativo, a emergere è una città – trasformata nel finale in muri e ponti privi di vita – che è simbolo del decadimento di un’intera civiltà. Il regista guarda al mondo che lo circonda senza la minima speranza: ormai tutto è stato consumato e non rimane che il ricordo, forse esso stesso fallace.