Quentin Taranto è un grande ammiratore dei western spaghetti e, più in generale, del cinema solitamente classificato di serie B. Per i prodotti italiani di questo tipo, poi, ha una vera venerazione. Nulla di strano, dunque, se si è imbarcato in una riedizione di Django, film diretto da Sergio Corbucci nel 1966, e ora intitolato Django Unchained (Django scatenato, sia nel senso di liberato dalle catene, sia in quello di privo di remore). Naturalmente le modifiche sono state molte, da quelle formali come il cambio del protagonista (dal bianco Franco Nero al nero Jamie Foxx con l’aggiunta del dentista d’origine germanica Christoph Waltz), all’ambientazione (dal confine statunitense - messicano al Texas e dagli anni che la seguirono la Guerra di Secessione Americana (1861 – 1865) a quelli che la precedettero), alle situazioni (dalla vendetta per la moglie uccisa alla liberazione della consorte tenuta prigioniera).
Nella versione tarantiniana il protagonista è un nero alla ricerca della moglie schiava di un ricco possidente sudista cinico e sadico. Per farlo si accompagna a un cacciatore di teste d’origine tedesca, ma quando i due stanno per portare a compimento la missione, sono scoperti, il bianco muore e le cose precipitano. Gran finale con spari assordanti e sangue a fiotti. Con quest’opera il regista americano rende omaggio sia al western tradizionale sia a quello italiano costruendo un film di ottimo livello. Era da Pulp Fiction (1944) che Quentin Tarantino non firmava un film così teso e compatto, miscela quasi perfetta d’ironia e violenza. Rimangono i dubbi, e pesano come macigni, sulla liceità morale di usare sangue, colpi d’arma da fuoco e occhi cavati dalle orbite a scopo di semplice divertimento rischiando di legittimarli come puri arredi scenici staccati dall’orrore che suscitano nel mondo reale, ma questo è un discorso che ci porterebbe lontani da un semplice giudizio su un film.