Haifaa Al-Mansour è una delle pochissime cineaste che vengono dall’Arabia Saudita, una nazione in cui la ricchezza dovuta al petrolio si accompagna a un’opprimente atmosfera bigotta nata da una lettura del Corano particolarmente chiusa e tradizionalista. Un paese in cui alle donne è vietato circolare a viso scoperto, guidare un’automobile, rimanere sole con un uomo che non sia di famiglia. Di tutto questo occorre tenere conto nel valutare La bicicletta verde, storia di una ragazzina che frequenta una scuola religiosa, ha una madre che sta per essere ripudiata dal padre perché non gli ha ancora dato un figlio maschio e sogna ardentemente di possedere una bicicletta verde, il colore dell’Islam.
La madre non vuole comprargliela sia perché non ha soldi, sia perché considera sconveniente che una donna pratichi un’attività solitamente riservata ai ragazzi. L’unico modo per realizzare il sogno è partecipare a un concorso di Corano, lei che religiosa lo è più per convenienza che per convinzione. S’impegna e vince, ma scopre amaramente che i soldi del premio sono già destinati al sostegno del popolo palestinese. Tutto sembra finito quando con una giravolta – per la verità narrativamente non del tutto convincente – sua madre cambia idea e gliela compra. Il film ha un taglio semplice, quasi neorealista, ma è sorretto da una convinzione forte e profonda. Questo fa sì che anche i dettagli più trascurabili – l’amante segreto della preside ultraconservatrice, la paura della polizia religiosa, il marito gelosissimo, l’impossibilità di andare a lavorare in ospedale pena un conflitto insanabile col coniuge - diventino indizi di un’oppressione ancor più terribile perché accettata passivamente da migliaia di donne. Un bel film che dice molte più cose di quante se ne colgano in una visione rapida e superficiale.