La vecchiaia è una delle condizioni più mitizzate e mistificate dalla cultura occidentale che la assume, di volta in volta, a simbolo di saggezza, serenità, pace spirituale. In realtà è uno stato terribile in cui, frequentemente, il degrado fisico si accompagna a quello mentale. Michael Haneke è un regista austriaco attento al rapporto fra apparenza borghese e ferocia dei comportamenti che maschera. I suoi film, lucidi e impietosi, non mostrano quasi mai azioni cruenti o sangue, ma sono orchestrati in maniera da suscitare una tensione e un crescendo che sfiora l’insopportabile. Accade anche in Amour (Amore), la sua opera più riuscita che giustamente la giuria dell’ultima edizione del Festival di Cannes, presieduta da Nanni Moretti, ha coronato con la Palma d’Oro.
Com’è consuetudine di questo grande autore la storia raccontata può essere riassunta con poche parole: Georges e Anne sono due pensionati ottantenni, entrambi raffinati ex - insegnanti di musica, che vivono serenamente il tramonto della vita quando un evento improvviso – un ictus che colpisce la donna e la trascina progressivamente verso la demenza e la perdita del controllo fisico – sconvolge la loro esistenza. Il marito assiste la moglie sino a che le sue condizioni degenerano in maniera insopportabile, poi, come estremo gesto d’amore, la uccide. Tutto questo è percorso a ritroso, partendo dal momento in cui i pompieri entrano nell’appartamento e trovano il cadavere della donna per ripartire dal mattino in cui, durante la colazione, la donna ha un primo, preoccupante momento di assenza. E’ una storia d’amore tenera e terribile, tenera per ciò attiene i rapporti fra i protagonisti, terribile per quanto viene progressivamente mostrando. I gli interpreti, i mostri sacri Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva affiancati dall’intensa Isabelle Huppert, mettono tutta la loro arte, assieme alla loro condizione di coetanei dei protagonisti, al servizio di un discordo terribile e umanissimo, straziante e reale. Davvero un grandissimo film.