Reality, ultima fatica di Matteo Garrone, ha riportato il Grand Prix al festival di Cannes 2012. Riconoscimento meritatissimo, forse ancor più di quello andato a Gomorra che ottenne lo stesso alloro a Cannes 2008, perché il film radiografa i profondi guasti culturali causati dalla televisione spazzatura. Luciano è un pescivendolo e un truffatore. Con la complicità della moglie fa acquistare a rate da povere vecchiette costosi elettrodomestici che poi i due rivendono a ricettatori senza scrupoli. Tuttavia la sua vera passione è salire su un palcoscenico, essere amato e idolatrato dalla gente, com’è accaduto a un suo concittadino, assunto alle cronache per aver partecipato a una serie de Il Grande Fratello.
Anche lui s’imbarca, quasi casualmente, in una selezione per questa trasmissione e supera, o crede di aver superato, anche una seconda scelta. A questo punto perde completamente la testa, crede di essere continuamente spiato da agenti dell’emittente incaricati di valutare la sua bontà. Per questo vende il negozio, regala buona parte degli arredi di casa, offre pranzi e bevute agli indigenti. La situazione precipita quando la moglie lo affronta in malo modo, ma neppure questo servirà a qualche cosa: approfitterà di un pellegrinaggio a Roma per intrufolarsi nel set di Cinecittà ove si confeziona la trasmissione che tanto lo ossessiona. Ora è felice, solo in uno scenario di cartapesta, ma finalmente appagato. Il film è leggibile, sin dalle primissime inquadrature – la pacchianeria dei matrimoni ricchi contrapposta alla povertà delle dimore in cui vivono coloro che vi hanno partecipato – come una feroce metafora dello scontro fra finzione televisiva e realtà. Questa povera gente che sogna fama e ricchezza, mentre campa di piccole truffe, appartiene a quel popolino, se si preferisce sottoproletariato, di cui hanno parlato i grandi pensatori socialisti ottocenteschi, solo che oggi c’è in più la televisione con il suo potere travisante e tutt’altro che neutrale. Davvero un bel film.