Daniele Ciprì, affermato regista in compagnia di Franco Maresco e sperimentato direttore della fotografia, ha firmato il suo primo film come unico autore adattando per lo schermo il libro E’ stato il figlio (2005) di Roberto Alajmo (1959). E’ la storia, distesa su un ampio arco temporale, della famiglia palermitana Ciraulo, il cui capo guida un’abborracciata squadra di recuperatori di metallo dalle carcasse delle navi in disarmo. Con lui vivono nella stessa casa, la moglie, due figli e i suoi genitori. Un giorno di ritorno da una gita al mare, la figlioletta è uccisa da una pallottola vagante esplosa nel corso di un regolamento i conti mafioso. Su consiglio di un vicino di casa, ben introdotto nel sottobosco malavitoso, la famiglia avanzata una richiesta di risarcimento sulla base della legge varata per le vittime della mafia. I soldi sono deliberati, ma impiegano molto tempo per arrivare.
Quando sono finalmente sul tavolo di casa il capo famiglia propone di investirli nell’acquisto di una costosa Mercedes. Ora l’improvvisa ricchezza può essere esibita al vicinato sennonché, poche ore dopo il figlio superstite, istigato da un picciotto suo coetaneo, ruba le chiavi dell’auto per esibirla a sua volta. Nel farlo urta un cartello stradale e graffia la carrozzeria. L’indomani mattina il padre scopre la cosa, va su tutte le furie e inizia a picchiarlo. Interviene in suo aiuto il vicino che uccide l’aggressore. Ora bisogna trovare una soluzione e, con il cadavere ancora caldo, è la vecchia di casa a farlo: sarà il ragazzo ad addossarsi il delitto, in cambio il vero assassino s’impegnerà a provvedere per anni al sostentamento della famiglia. Tutto questo è raccontato da uno strano tipo, seduto in un ufficio postale in attesa del suo turno. Alla fine scopriremo questi che è proprio il giovane che anni prima si era addossato, innocente, il delitto e che ora vive, solo, nello stesso appartamento. Il film è molto bello e acquista forza nelle ultime sequenze, quando il tono quasi farsesco delle parti precedenti lascia il passo a una malinconia e una tristezza esistenziali che pongono l’accento l’immodificabilità di una situazione e la rocciosità di caratteri cementati da una cultura fatalista che affonda le radici nello scorrere del tempo. E’ un racconto in cui figure simboliche, situazioni grottesche e dolore sociale si danno la mano nella costruzione di un discorso forte e limpido.