Carlo Verdone è un regista i cui film presentano una pregevole continuità e coerenza. Il suo modello è la gloriosa commedia all’italiana, con qualche sottolineatura malinconica in più. I suoi personaggi sono spesso perdenti di qualità nel senso che, se ora navigano in mezzo ai guai, hanno alle spalle epoche felici segnate da successo e riuscita economica. Tale è anche Ulisse, uno dei tre protagonisti di Posti in piedi in paradiso, ex-discografico di qualità ridottosi, dopo una serie d’insuccessi, a gestire un negozietto di dischi in vinile e memorabilia musicali.
Economicamente sull’orlo del fallimento – è costretto a vivere nel retrobottega del suo negozietto – accetta di dividere un appartamento di poco prezzo e ancor minore qualità con Fulvio, ex – critico cinematografico di successo costretto a seguire conferenze stampa di divette televisive dopo un rovinoso divorzio, e Domenico che di famiglie e figli ne ha più sin troppi e sopravvive prostituendosi per mature signore. Un terzetto di sfortunati che faticano a stare assieme, ma che saranno slavati dall’arrivo di una cardiologa dal cuore d’oro, anche lei in crisi affettiva. E’ un piccolo mondo in crisi da cui trapelano alcuni riferimenti di portata più generale: il degrado della cultura, il contrasto fra realtà e apparenza, la sostanziale pulizia dei giovani. Come dire un mondo in rovina che conserva ancora barlumi di speranza. E’ questo buonismo fondamentale a separare il cinema di questo cineasta dagli umori più acri dei modelli cui s’ispira e a inquadrarlo in un ruolo di grande professionista (scusate se è poco!) incapace, tuttavia, di un colpo d’ala che lo faccia entrare definitivamente nel mondo dei grandi autori.