A Dangerous Method (Un metodo pericoloso) diretto dal canadese David Cronenberg nasce da una sceneggiatura che Christopher Hampton (1946) ha tratto dal suo testo teatrale The Talking Cure (La cura della conversazione, 2002). Un copione che, a sua volta, si è ispirato al libro A Most Dangerous Method (Il metodo più pericoloso, 1994) di John Kerr (1943).
Al cento della storia ci sono i complessi rapporti fra l’ebreo austriaco Sigmund Freud (1856 – 1939), lo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung (1875 – 1961) e la russa Sabina Spielrein (1885 – 1942). Quest’ultima, figlia di un ricco commerciante israelita, era stata curata da Jung che l’aveva guarita da una grave forma di disturbo mentale, ne era diventata l’amante per poi affermarsi come psichiatra e schierarsi dalla parte di Freud nella disputa che lo contrappose al suo ex allievo elvetico. Lo scenario è quello dei primi anni del ‘900, passando per le avvisaglie della grande carneficina legata alla Prima Guerra Mondiale e arrivando al pieno della Seconda guerra Mondiale che travolse sia il fondatore della moderna psicoanalisi, costretto a rifugiarsi a Londra per sfuggire alle persecuzioni antisemite, sia la donna, fucilata dai nazisti assieme alle due figlie nei giorni dell’occupazione dell’Unione Sovietica da parte della Wermacht. Il conflitto fra i due grandi studiosi della mente umana fu alimentato da molte discordanze che il film riassume nella certezza dell’austriaco sulla riconducibilità alla sfera sessuale di ogni comportamento umano e la disponibilità dello svizzero a guardare oltre il personale per coinvolgere anche altri fattori, prima di tutto quelli legati all’ambiente sociale. E’ una riduzione sicuramente eccessiva, ma che la regia riesce a tradurre in conflitto avvincente e in immagini precise e laccate quanto basta. Ancora una volta registriamo il contributo che viene alla riuscita dell’opera dalla preesistente base teatrale e la capacità del regista di realizzare il film senza troppo immergerlo in un clima da palcoscenico. Certo, anche qui i dialoghi sono importanti e, in qualche caso, sovrabbondanti, ma ciò che conta è che il passaggio dalla scena al grande schermo avviene preservando le esigenze cinematografiche. Nel caso in questione il cineasta imbocca la via del film classico e lo fa licenziando un prodotto non eccezionale, ma di grande interesse.