Harry Potter e i doni della morte: parte II. Il film, affidato alla regia di David Yates (1963), che si cimenta per la quarta volta con questo personaggio, spinge in modo sensibile sui dati dark già presenti nei suoi ultimi lavori.
La trama non è nuova e ruota attorno alla lotta eterna fra i portatori del male (i Mangiamorte e Lord <Voldemort) e quelli del bene, guidati da tre giovani alunni della scuola di magia di Hogwarts: Harry Potter, Ron Weasley e Hermione Granger. Il dato che unisce i titoli della serie, otto contro i sette romanzi, a dispetto dei cineasti che si sono succeduti dietro la macchina da presa (Chris Columbus, Alfonso Cuarón, Mike Newell e David Yates) e i dieci anni trascorsi fra il primo e l’ultimo titolo, è il ricorso sistematico alla tecnologica, all’uso della grafica computerizzata al fine di trarne sequenze sempre più sorprendenti. In parallelo si sono annacquate, sino a scomparire, le venature ironiche e satiriche – la scuola dei maghi come paradigma dei grandi college inglesi, il ministero della magia come irrisione della burocrazia britannica – per lasciare il passo ai colori scuri, i toni cupi, l’horror al posto dell’ironia. E’ un processo che trova qualche riferimento anche nell’evolversi della situazione economica mondiale e nel procedere dell’età degli attori, ormai giovani adulti immersi in un mondo che offre loro ben poche ragioni di ottimismo. Quest’osservazione non appare pellegrina se si tiene conto della forte sensibilità politica della scrittrice che ha regalato ben un milione di sterline al Partito Laburista ed è molto attiva in campo sociale. Ottime ragioni che non fanno superare, a quest’ultimo capitolo, un senso eccessivo già visto e un fastidioso sospetto di operazione attenta a trasferire in panni diversi situazioni e sequenze tipiche del cinema commerciale più conformista, come duelli, crolli e battaglie.