La fantascienza è spesso servita per costruire importanti metafore sui problemi della vita e su quelli della società. Basti pensare a titoli come L'invasione degli Ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956 che Don Siegel trasse dall’omonimo romanzo di Jack Finney, del 1955) o il super citato Blade Runner, diretto nel 1982 da Ridley Scott sullo spunto del romanzo Il cacciatore di androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968) di Philip K. Dick. E’ ora la volta di Duncan Jones, un giovane regista inglese figlio d’arte, è il rampollo del cantante David Bowie, a prendere in mano una bella sceneggiatura di Ben Ripley per realizzare Source Code, un film non privo di (modesti) effetti speciali, ma il cui punto di forza è la fantasia del racconto e la consistente intelligenza nella costruzione.
Il canovaccio parte dall’ipotesi che un ufficio militare segreto sia riuscito, tramite l’impiego della matematica quantistica, a far rivivere ai morti otto minuti di vita, qualunque sia il punto sin cui sono collocati. Il primo esperimento è quello a prendere il cadavere di un pilota di elicotteri caduto in combattimento in Afghanistan e inserirlo nel corpo di un insegnante morto nel corso di un attentato terroristico a un treno suburbano che ha fatto decine di vittime. Gli faranno rivivere, più volte, gli ultimi minuti prima dello scoppio, sperando che riesca a individuare il terrorista che ha fatto deflagrare la bomba e sta per compiere un’altra strage, questa volta con parti nucleari. Il malcapitato si appassiona talmente al compito da scoprire e far arrestare il terrorista – un americano razzista – e, per giunta, prendere gusto a continuare a vivere in una sorta di mondo parallelo. Gli sarà compagna una ragazza che era con lui sul treno, quando ancora aveva la vecchia identità. Tutto questo mentre i militari si rodono le dita per lo scampato pericolo, poiché un bel massacro nucleare avrebbe consentito loro di sperimentare sino in fondo l’efficienza dei sistemi che hanno inventato. Come già nel film d’esordio, Moon (2009), questo regista punta alla raffinatezza psicologica e alla rappresentatività simbolica delle situazioni, non certo agli effetti mirabolanti. In questo caso ne nasce una storia apparentemente semplice, in realtà molto complessa, in cui s’intrecciano riflessioni morali sulla vita e la morte, spunti sociali (il terrorismo interno), riflessioni sul complesso industrial – militare, cenni al fluire della vita nel mondo moderno (la coppia riflessa nel grande fagiolo). Eccellente l’interpretazione sia da parte del protagonista, Jake Gyllenhaal, che di due coprotagonisti di lusso: Vera Farmiga e Jeffrey Wright.