Sta riemergendo, anche se in condizioni molto diverse, una vecchia tendenza a considerare le immagini di repertorio come capaci di parlare da sole, essere in grado, senza alcun commento, di fornire analisi e risposte agli interrogativi della storia. Nel programma dello scorso anno di Cannes c’era, ha fatto discutere e sta per essere distribuito anche in Italia, un lungo film intitolato Nicolae Ceausescu: un’autobiografia in cui il regista Andrei Ujica ha ricostruito i ventiquattro anni di dittatura del rumeno selezionando sequenze rigorosamente recuperate fra oltre mille ore di riprese ufficiali del regime.
Qualche cosa di simile accade in Silvio Forever cui Roberto Faenza e Filippo Macelloni hanno costruito un’autobiografia non autorizzata del premier, sulla base di una sceneggiatura di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo costruita su immagini ufficiali o ufficiose allineate senza commento. L’illusione, perché di tale si tratta, è che sequenze e fotografie possiedano una verità univoca, non modificabile sulla base del loro accostamento o contrapposizione. E’ la negazione dell’importanza del montaggio come pensiero creativo della regia e l’esaltazione di un’oggettività del tutto inesistente, poiché giudizi e interpretazioni stanno negli occhi e nella testa di chi guarda. Il pericolo è di un vero rovesciamento, con i giudizi che mutano di segno rispetto alle intenzioni degli autori e ciò che dovrebbe apparire ridicolo diventi oggetto di adorazione per lo spettatore, quanto dovrebbe essere percepito come ambiguo o moralmente condannabile diventi, invece, assolutorio ed encomiastico. Per questo il film oscilla fra l’ovvio, l’indifferente e l’ambiguo.