Shi (Poesia) del sudcoreano Lee Changdong era in concorso al festival di Cannes del 2010 e ora esce nel circuito commerciale, sono si capisce bene perché, con il titolo inglese Poetry. Vi si racconta di una matura signora che sopravvive facendo da badante a un generale paralizzato e accudendo a un nipote che alleva dopo il divorzio della figlia. Il ragazzo, scontroso e musone come tutti gli stereotipi sui giovani moderni, finisce coinvolto in una brutta storia di stupro ai danni di una studentessa che, dopo, si toglie la vita. Il crimine è stato consumato da sei ragazzi e i genitori del gruppo si tassano di cinque milioni di won (circa 3.200 euro) a testa per indennizzare la madre della vittima, ma l’anziana badante quei soldi non li ha.
Negli stessi giorni ha scoperto la poesia, attraverso un corso letterario, e la usa per sfuggire alla terribile realtà in cui è immersa, ma è una barriera fragile non in grado di resistere agli assalti e alle offese dal mondo. Alla fine riuscirà a trovare la somma che le serve, quale compenso dell’amore fatto con il vecchio paralitico, ma preferirà andare alla polizia e denunciare il nipote. Il film ha un punto di forza nella stupenda interpretazione di Yun Junghee, leggendaria attrice del cinema coreano, e presenta una confezione di grande professionalità sorretta da una fotografia, nota abbastanza comune per il cinema orientale, molto bella. Tutto questo non basta a salvare l’opera da un senso già visto e dall’impressione che, in qualche punto, sentimenti e psicologie cedano il passo al formalismo.