Into Pradiso segna l’esordio nel lungometraggio di Paola Randi. Il film muove sulla scia della tradizione drammatico – musicale inaugurata da Sud Side Stori (2000) di Roberta Torre, anche se, in questo caso, ci sono meno balletti e canzoni. E’ l’insieme dell’opera, i suoi colori, la commistione fra realismo e fantasia a ricordare quel vecchio testo.
Siamo a Napoli, una città dilaniata fra camorra ed enclavi di extracomunitari, ricostruite come le lontane terre da cui provengono coloro che le abitano. Qui s’incrociano i destini di Alfonso, un ricercatore appassionato del suo lavoro che vive in un appartamento collocato in un cimitero ed è stato appena licenziato, Gayan, un ex campione di cricket srilankese arrivato in città senza un soldo, e Vincenzo Cacace, un politico colluso con la criminalità organizzata. Questi tre personaggi si trovano a dover condividere l’esiguo spazio di una baracca fatiscente posta sul tetto di una casa non meno deruta. Il politicante ha ricevuto l’incarico di ammazzare lo scienziato che, per puro caso, ha perso una preziosa pistola che il capo camorrista voleva regalare a un collega. Senza possibilità di fuga, il palazzo e presidiato dagli scherani del boss, i prigionieri sono costretti a mettere da parte rancori e pregiudizi sino a un lieto fine improbabile quanto appiccicaticcio. Le intenzioni sono ottime, le prestazioni degli attori di buon livello, ma la regia manca di vera inventiva e rimane costantemente in bilico fra realismo e vera follia fantastica. Il film, chiuso in questi limiti, si segnala più come catalogo di buone intenzioni che non come opera autenticamente originale.